L’Abruzzo è una terra antica con un nome nuovo, assunto definitivamente più o
meno mille anni or sono, dopo averne cambiati molti altri. Infatti questa terra è
stata per millenni una realtà frazionata per etnia, per lingua e persino per geomorfologia del territorio, impiantata com’è, intorno ai due grandi massicci del Fiscellus
Mons e della Magella (per restare agli antichi nomi1) con le loro propaggini affiancate da altipiani e vallate scavate da una fitta rete di fiumi. Dapprima fu la Saturnia
tellus in cui approdarono le migrazioni pelasgiche, che, dopo essersi mescolate
con gli aborigeni, dettero vita al variegato scenario delle tribù italiche. Queste per
arrivare ad avere una unità geografica e politica con la IV Regio augustea (Sabina
et Samnium) dovettero attendere il primo secolo del nostro evo con Ottaviano
Augusto che, organizzando amministrativamente l’Impero, aveva giustamente
tenuto presente la koiné originaria che univa le popolazioni del ceppo italico.3
La denominazione fu, in parte, mutata da Diocleziano in Provincia Valeria, topo
nimo che mantenne per tutto il basso Medioevo, ma che indicava un territorio
comprendente approssimativamente l’area sabina.
Quando nel variegato scenario religioso del mondo antico, si pensa alla condizione iniziatica femminile e alla funzione sacerdotale che vi è connessa, l’immaginazione corre alle Tesmoforie, alle Panatenee, alle Brauronie, ai Tiasi dionisiaci,
ai Piccoli e ai grandi Misteri di Eleusi, all’Orfismo, ai Culti isiaci, alla Scuola Italica di
Metaponto, per approdare, infine, all’aurea latinitas delle Virgines Vestae e della
Regina flaminica.
Si tratta di riti e attori tra di loro diversificati per mitologema, per struttura
e per funzione cerimoniale, che tuttavia condividono il medesimo registro
della identità di genere, rapportata al Sacro, ma soprattutto la stessa origine
che affonda le radici negli archetipi di una cultura ginocratica, il cui punto
centrale è una divinità femminile, collegata agli aspetti selvaggi della natura
(boschi, montagne, acqua, animali) particolarnente influenti nell’andamento
delle società nomadi dei cacciatori e dei raccoglitori (paleolitico superiore).
tra le prime teofanie della terra, in quanto potenza tellurgica vi fu infatti la
sua maternità: in altre parole, prima di essere sentita come dea madre di un
universo uranico e trascendente, venne intesa semplicemente come Madre,
fonte di vita e vaso di fecondità.
In questo periodo (circa 40.000 anni fa) si sviluppano in tutta l’area euro
asiatica e nord-africana il culto dei morti con relative offerte funerarie ad
una divinità del sottosuolo (assimilato per metonimia al ventre della terra) e
quello delle cosiddette “Veneri paleolitiche”: statuette, o bassorilievi scolpiti
in osso di mammut o in pietra calcarea e raffiguranti una donna steatopigia dai
caratteri sessuali enfatizzati, icona di fertilità e rappresentazione della Grande
Madre propiziatrice della vita e del sostentamento.
A questi sistemi culturali, che sarebbe erroneo considerare semplici ed inge
nui, nel Neolitico (circa 10.000 anni fa) si affianca una maggiore attenzione
per le pratiche agricole e di allevamento, proprie delle società stanziali ad
economia agropastorale.4 Anche in questo caso la divinità di riferimento è una
figura oscillante tra una Vergine Signora degli animali (Potnia theron) ed una so
lenne Madre (Demether), preposta alle coltivazioni cerealicole, raffigurata assisa
in trono e spesso galattofora di uno o più infanti.
Questi caratteri arcaici, attenuati nella cultura classica pre-olimpica, si man
tengono invece tra le varie popolazioni di ceppo italico, con una sostanziale
omogeinità diffusiva che gli storici (Erodoto, Tucidite, Dionigi d’Alicarnasso
etc.) attribuiscono alle migrazioni pelasgiche, le quali, all’inizio del primo Millennio a. C. ne avrebbero costituito la comune origine.
Secondo questa antica tradizione, quando i Pelasgi, popolo proveniente dalle
Isole Cicladi, diffondevano in tutto il Mediterraneo il culto di una divinità
tellurica che Robert Graves chiama la Dea bianca, un gruppo della medesima
etnia, risalendo il canale d’Otranto, o attraversando il mare all’altezza della
costa dalmata, approdarono nell’Italia centrale, e precisamente ad Ortona,
dove, fondendosi con gli aborigeni, dettero luogo alla cultura medioadriatica